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Pensieri, riflessioni, poesie a cura del poeta Enzo Montano
Inauguriamo la sottosezione dedicata alla poesia con un mio componimento dedicato al mese di settembre.
16-09-2019
foto: Dariusz Klimczak - Matter of time
Settembre

Torna Orione
la luna avvicina il limite del giorno
profumata di zagare dolci è la sera.
Lungo l’aranceto
volti passati raccontano storie risapute,
l’urlo non ha eco
perché non è una voce.

Più lento scorre il tempo
medesima l’inutilità.

Baluginano lontano
profili di cupole d’oro
luce d’ambra e quarzo rutilato
sopra la città d’incanto
dove nulla diventa ricordo
dove mai le strade si allontanano
perché mai si parte
e neanche ci si arriva.

Settembre fine e inizio
dice l’equinozio
in un qualsiasi punto.

Un punto siamo
e un centro
centro dell’universo
ognuno di noi
e anche centro del nulla.


Settembre è cerniera tra estate e autunno.
Provo con questi versi a mescolare gli aspetti del cambio di stagione vero e proprio: le diverse atmosfere, i profumi, le costellazioni australi che si ripresentano, la diversa luminosità della luce che si fa via via meno arrogante e che assume quelle sfumature negate dai cambi repentini (o meno osservati) tipici dell’estate; e gli aspetti diciamo più interiori dovuti allo scorrere del tempo identificando l’estate e l’autunno quali stagioni della vita: lo scorrere lento dei giorni quando si comincia a prendere congedo dalla frenesia dei giorni con l’arrivo dell’età della pensione, quando i ricordi diventano preziosi e si rivivono con il rimpianto di non averli vissuti con la sufficiente pienezza. E pur con spirito diverso, pur con la consapevolezza di aver oltrepassato la boa e che il vento ormai spinge la vela verso il traguardo, noi siamo, continuiamo ad essere un centro di un universo o di un microcosmo solo nostro.
Enzo Montano
17-09-2019
Madrid, Plaza de S. Ana – Monumento a Federico García Lorca, scultura di Julio López Hernández
Strada – Federico Garcia Lorca
 
Cento cavalieri in lutto,
 
dove andranno,
 
nel cielo giacente
 
dell’aranceto?
 
Né a Cordova né a Siviglia
 
giungeranno.
 
Né a Granada che sospira
 
per il mare.
 
Quei cavalli sonnolenti
 
li porteranno,
 
al labirinto delle croci
 
dove trema il canto.
 
Da sette ay trafitti,
 
dove andranno,
 
i cento cavalieri andalusi
 
dell’aranceto?
 
 
 
 
Strada è un percorso verso l’ignoto.
Dove andranno, / i cento cavalieri andalusi / dell’aranceto?
Non vanno a Cordova, o Granada, o Siviglia.
Con la loro indolenza i cento cavalieri vestiti a lutto (e tutti noi) si dirigono verso un ignoto dove incombe la morte, termine ultimo di ogni strada.

Federico Garcia Lorca è universalmente riconosciuto quale uno dei più grandi poeti spagnoli. A mio parere è da collocare tra i più grandi della poesia mondiale, comunque uno dei miei preferiti.
 
FGL nasce in Andalusia, a Fuente Vaqueros, un paesino della provincia di Granada, il 5 giugno del 1898.
 
Indotto dal padre, si iscrisse alla facoltà di giurisprudenza ma vi rinunciò rapidamente per dedicarsi alla letteratura, sua vera passione.
 
La prima parte della sua produzione poetica è rivolta alla sua Andalusia, ai paesaggi, ai colori, ai profumi, ai silenzi, ai sogni. Verso la sua amata terra ha sempre conservato un legame fortissimo, sebbene spesso vi si allontanava nei momenti di depressione dovuti alla sua omosessualità.
 
Successivamente produzione letteraria fu un convinto sostegno degli ideali di democrazia della Repubblica, cosa che lo portò davanti a un plotone di esecuzione franchista il 19 agosto del 1936.
 
La poesia che segue fa parte della prima parte della produzione artistica del poeta.
28-09-2019
Suicidio a Greenwich Village - Gregoy Corso

Braccia spalancate
mani schiacciate sugli stipiti della finestra
Lei guarda giù
Pensa a Bartok, Van Gogh
E alle vignette del New Yorker
Cade

La portano via con un Daily News sulla faccia
E un negoziante getta acqua calda sul marciapiede

Propongo uno dei poeti che più amo e, secondo me, il più dotato della beat generation poiché capace di travalicare i confini del gruppo di origine. Di quel periodo, lo ritengo, uno degli autori  più vicini al mio “sentire” la poesia: Gregory Corso.
Per questo sono sempre stato affascinato dalla sua interpretazione dell’arte poetica concepita quasi fosse uno strumento utile ad affrontare le avversità di quella vita che Gregory Corso ha vissuto con la leggerezza interiore propria del poeta, considerandola in tutta la sua dimensione aleatoria.
 
Elemento questo che traspare in tutta la sua ricerca poetica.
 
Enzo Montano
Times Square in 1940 New York
La Nonna - Enzo Montano
Mia nonna paterna è il faro della mia vita, la persona che è sempre stata parte della mia vita fin dalla nascita. Le voglio un bene sterminato, intenso, profondo, riconoscente, inesauribile come solo alle nonne se ne può volere.
 
È una donna austera, burbera, direbbe qualcuno, non a torto. Una donna dai modi bruschi che io sapevo essere una specie di corazza dentro cui si celava la donna più buona del mondo, che mai si tirava indietro quando c’era da aiutare qualcuno. E lo faceva sempre con estrema discrezione perché un altro aspetto del suo carattere è la riservatezza. Gli aspetti caratteriali che la facevano apparire persino scontrosa si sono sviluppati soprattutto dopo la scomparsa di suo marito, nonno Nicola che non ho conosciuto, morto a seguito di un incidente sul lavoro, durante la costruzione di un ponte. Era ingegnere, uno dei primi  del circondario. Da allora nonna Maria divide la grande casa con la signora Melinda e suo marito signor Balan. Melinda le fa compagnia e le dà una mano per le faccende domestiche, il disbrigo delle incombenze e la spesa, Balan coltiva i tre ettari rimasti intorno alla casa rimasti di proprietà della nonna oltre a provvedere alla manutenzione dell’attrezzatura e della casa. A casa mia, quindi, c’era sempre grande abbondanza di frutta, verdura e ortaggi di stagione.
 
Quando arrivai io, ventisette anni fa, la nonna mi fece da seconda mamma e ne fu felicissima. Ritornò giovane, ai tempi in cui lei diventò madre, spesso infatti mi chiamava col nome di sua figlia, Giovanna, mia madre. Poi mi chiedeva scusa rammaricandosi oltre il dovuto, pensando di farmi un torto. Ma io ero troppo piccola per comprendere le implicazioni della vedovanza e della solitudine. Tutte cose che avrei dimenticato, come tanti altri episodi dell’infanzia, se non fosse stata lei stessa a ricordarmele.
 
“Hai ridato pienezza ai mie giorni” mi diceva sempre “ mi fai sentire una giovinetta”.
 
Voglio un mondo di bene anche agli altri nonni, alle zie e agli zii, ma nonna Maria mi ha cresciuta. Nonna Maria è sempre stata con me, mi ha coccolata, mia ha fatto superare i momenti più difficili, mia ha insegnato l’allegria e mi ha insegnato anche a piangere.
 
“Piangi – mi diceva quando non riuscivo a sopportare l’assenza dei miei genitori – piangi, non devi vergognarti, il pianto è amico dell’allegria, se non sai essere triste non potrai gioire dei momenti felici”. E mentre piangevo torrenti di lacrime lei mi accarezzava dolcemente senza mai stancarsi.
 
Mai mi ha fatto un rimprovero gratuito, mai ha perso la pazienza, anche quando ne avrebbe avuto tutte le ragioni del mondo soprattutto nel periodo dell’adolescenza.
 
La mia mamma è insegnante e ha dovuto anteporre il lavoro a tutto il resto dopo la morte del mio papà, stroncato dal male della nostra epoca, il cancro, quando io avevo poco più di un anno. Mamma ha dovuto accudire il marito durante la malattia nel tempo che le rimaneva dopo il lavoro.  Papà non voleva arrendersi, ha combattuto senza paura fino all’ultimo giorno, fino all’ultimo respiro.
 
“Devo farcela – diceva alla mamma – devo vivere per lei, per la nostra bimba bellissima, devo raccontarle la bellezza della vita. Se non dovessi riuscire a sconfiggere il mostro devi dirle che lei mi ha dato l’energia fino alla fine, dille che lei è il più bel dono che potessi mai ricevere, dille che non deve abbattersi mai, per nessun motivo…”.
 
Si, mio padre voleva continuare a vivere ma non gli è stato concesso, e a me non è stato concesso di avere un padre.  Mia madre ha dovuto continuare al lavorare per lei ma soprattutto per me, per darmi una vita che non si discostasse molto dalla vita degli altri. Il lavoro però non gli ha mai lasciato il tempo per dedicarsi a me come avrebbe voluto, per questo ho vissuto molto tempo con la nonna che ha dovuto farmi da madre, da padre e da nonna.
 
E nonna mi ha insegnato la vita, mi ha aiutato a impadronirmi di tutte quelle cose che formano una persona. Non smetteva mai di raccontarmi di mio padre, della sua infanzia, dei giochi che faceva, delle storie che amava farsi raccontare, di come sorrideva, come si pettinava, le canzoni che ascoltava, i libri che leggeva. Grazie a lei, si può dire, ho conosciuto mio padre, ne ho sentito la vicinanza, ho realizzato perfino la sua voce, il sorriso, le carezze,  anche se di lui non ho nessun ricordo diretto, se non delle immagini sfuocate di cui non so dire se sono sogni o ricordi confusi avvolti da coltri di nebbia e del tempo dei mie primi mesi di vita, oppure entrambe le cose.
 
Questo preambolo per dire che appena il test di gravidanza mi dato conferma di quello che già sapevo sono corsa da nonna Maria per darla la bella notizia.
 
Salto in macchina e vado da lei, nella grande casa di campagna dove vive da sempre, dove hanno vissuto i suoi genitori e i genitori dei suoi genitori. In quella grande casa circondata da una specie di parco con alberi centenari dove c’è fresco anche nei giorni più caldi dell’estate, ho vissuto io fin dai primi mesi di vita. Svolto a sinistra, oltrepasso il cancello, percorro il vialetto di ghiaino bianco fino al portico e freno bruscamente. Apro la portiera e urlo:
 
- Nonna! Nonna! Nonna Maria!.
 
Non contenta pigio a lungo il clacson fin quando la nonna compare nell’apertura del vecchio portone.
 
- Cos’è tutta questa furia, bambina mia.  Dammi il tempo, io sono vecchia e mi muovo con cautela, è successo qualcosa?
 
- Si, nonna, è successa una cosa importante.
 
- Vieni qua, fatti abbracciare prima.
 
Ci abbracciammo a lungo, le diedi cento o duecento baci sulla fronte e le guance solcate da rughe che ornavano il suo bel viso e lo rendevano prezioso, sempre più bello, sempre più nonna. La mia nonna saggia e perfetta.
 
- Sono incinta, nonna, aspetto un bambino, avrai di nuovo un piccolo per casa.
 
- Che meraviglia, mia piccola Mariateresa, che meraviglia!
 
- Sono molto contenta.
 
- Anche io bambina mia, anche io sono felice.
 
- Sono corsa da te appena ho avuto la conferma. La mamma e Carlo attendono solo la conferma ma ho voluto dirlo subito a te, non ho resistito.
 
- Vieni qua bella, lasciati abbracciare ancora
 
Mi abbracciò ancora più forte, mi accarezzava, mi stringeva la faccia tre le mani e piangeva la sua gioia, e anche io piangevo la mia gioia e la sua. Con la voce rotta dall’emozione disse:
 
- Sono contenta che tu abbia pensato subito a me adesso, però, chiama subito tuo marito e la mamma. Adesso!
 
- Ma nonna, loro già ne sono al corrente, appena tornano a casa avranno la conferma di quello che già sanno. Non è il caso di disturbarli sul lavoro, avevo voglia di condividere con te questa mia gioia ma se lo desideri scrivo un messaggio alla mamma e a Giuseppe così appena possono lo leggono.
 
- Va bene piccola mia, scrivi il messaggio mentre io preparo la nostra bella tazza di tè e i biscotti che ti piacciono da sempre, quelli che portavi alla scuola materna e che ti volevi offrire sempre alle maestre.
 
 
Prendemmo il nostro buonissimo tè sedute al tavolo sotto il portico che immetteva alla porta di casa,  la nonna era insuperabile nel preparare il migliore tè del mondo, era una vera esperte di miscele, aromi, infusione, persino più brava di miss Marple. Il tè era un rito, per prepararlo aveva un armamentario di filtri, pentolini dalle forme più strambe, contenitori a tenuta stagna, ecc., la nonna non è una vera cultrice e, devo dire, il risultato era sempre ottimo.
 
- Vedi quell’albero?
 
Mi chiese indicando un bel ciliegio che ad ogni primavera arrivava puntuale col suo carico abbondante e dolcissimo di frutti rossi che la sapienza sue e quella di Melinda trasformavano in squisite marmellate, canditi, ciliegie sciroppate o sotto spirito. L’albero era in coda a una fila dei tre grandi gelsi che ombreggiavano la facciata della casa, anch’essi sempre generosi di dolci bacche che, quando mature, avevano un bel colore ambrato, ed era seguito da un giovane susino, anch’esso generosissimo di frutti succosi destinati allo stesso trattamento delle ciliegie.
 
- Si che lo vedo. – Dissi.
 
- Sai quanti anni ha quell’albero?
 
- Non lo so, io lo ricordo da sempre.
 
- Ha la tua stessa età, lo misi io stessa a dimora lo stesso giorno della tua nascita, subito dopo averti vista in ospedale, bella, rosea e piccolina, tra le braccia della tua orgogliosa mamma, sempre bellissima come una regina.
 
- Che bello, nonna, non lo sapevo, è una cosa bellissima avere un albero. Perché posso dire che il ciliegio è il mio albero?
 
- Mia cara, certo che è il tuo albero, per me fu una specie di rito propiziatorio, gli alberi sono forti, e impiantarne uno era come augurarti di crescere forte come il ciliegio.
 
- Che dici, sono cresciuta forte?
 
- Si, forte, bella e dolce proprio come l’albero e i suoi frutti.
 
- Allora pianterai un altro albero tra nove mesi?
 
- Certamente, e tu mi aiuterai ad accudirlo con la stessa devozione che il piccolo principe ha per la sua rosa.
 
- Si, Il piccolo principe, quante volte ti ho chiesto di leggerlo, e  quante volte l’ho riletto io, l’ultima volta solo pochi giorni fa, presagendo l’arrivo di un principino una principessina.
 
Andai indietro nel tempo, a quando con la nonna pasticciavo nell’orto, tra pomodori, zucchine e melanzane. Ogni foglia nuova di una pianta era una scoperta, i frutti delle piante mi emozionavano ogni volta. Ricordo le ore trascorse ad osservare i grandi alberi intorno alla casa: i gelsi, il vecchio carrubo, i fichi contorti dalle grandi e la tenacia inarrivabile, l’altissimo eucalipto che quando soffiava lo scirocco sovrastava ogni altro profumo, un bel ginepro fenicio, gli ulivi, i melograni e tante altri alberi su cui si nidificavano passerotti, gazze e tortore. In estate intorno alla casa c’era sempre un coro ininterrotto di cicale e quando il sole di agosto le stroncava a me il silenzio sembrava irreale.
 
Ricordai, in compagnia della mia bella nonna le giornate dedicate al pane e alle focacce che ricordo come le feste più belle. mai dimenticherò il profumo intenso del pane che cuoce, delle focacce appena sfornate, talmente invitanti da non riuscire ad attendere che si raffreddassero.
 
La grande casa di campagna era la storia della mia famiglia, avvolta da ricordi incancellabili. Nonna mi raccontava le cose e mi insegnava la semplicità dell’infallibile logica contadina basata sul rispetto della natura e delle tradizioni. “Gli alberi sono alberi – mi diceva – e noi dobbiamo rispettarli per quello che sono, piante forti e possenti ma fragili se non accuditi; le case sono case e pretendono altre attenzioni altrimenti decadono, i muri si sbreccano, le finestre marciscono, dal tetto penetra l’acqua della pioggia; i fiori sono la gioia dei nostri giorni, la poesie dei campi, la bellezza che attira le farfalle e le api, sono fragili e delicati come i bambini piccoli; il pane è il cibo sacro non per argomentazioni religiose ma perché è il primo frutto del sudore dei contadini, del grano che indora i nostri campi; il latte è l’atro cibo sacro della tradizione, senza latte non esiste nutrimento per i cuccioli, tutti i cuccioli di tutte le specie”.
 
Quante volte la mia nonna mi aveva ripetuto questi concetti, apparentemente semplici, ma con l’età ho capito il mondo sterminato dietro le semplici parole.
 
- Mi raccomando – disse come se stesse leggendo i miei pensieri – quando nascerà il piccolino, non lasciarti convincere a rinunciare all’allattamento.
 
- Non ci penso nemmeno, nonna.
 
- Brava. Lascia perdere il latte in commercio di cui tutti raccontano meraviglie.
 
- Lo sai che sono determinata, non mi lascerò convincere da nessuno specie dopo le tue raccomandazioni e quelle della mamma.
 
- Sento dottori dire che il latte che vendono in farmacia è migliore del latte materno. Non credere a queste scempiaggini, quando mai i bambini non hanno allattato al seno materno? Quando mai i cuccioli degli animali sono riusciti a sopravvivere senza l’allattamento? Io credo si solo un vantaggio commerciale poiché nessun prodotto industriale può essere migliore del latte che sgorga naturalmente dal seno di una mamma.
 
- Condivido ogni cosa che dici, nonna, stai tranquilla che io non mi lascerò affascinare dalle sirene del consumismo, dopotutto discendo da una famiglia di contadini e mi piace rispettare le mie radici.
 
Mentre si chiacchierava il silenzio venne interrotto dal rumore di un auto che aveva imboccato frettolosamente il vialetto d’ingresso. Era la mamma.
 
- Ma che brave – disse appena scesa – volevate festeggiare da sole la bella notizia.
 
Venne ad abbracciarmi forte, qualche lacrima luccicava sul suo bel viso.
 
- Auguri piccola mia, sono felicissima.
 
- Grazie mamma, ma non è una novità per te.
 
- No, ma l’ufficialità è altra cosa.
 
Andò a salutare la nonna che amava come amava sua madre.
 
- Sapevo che sarebbe venuta da te per darti la bella notizia, appena ho letto il messaggio ho chiesto il permesso di avere il resto della giornata libera e sono corsa qui certa di trovarvi.
 
- Hai fatto bene Giovanna è un giorno che merita una festa, adesso…
 
La nonna non finì la frase perché fu interrotta da uno sgommare violento di un’altra automobile che aveva svoltato bruscamente nel vialetto che portava alla casa. Era Giuseppe. Scese rapidamente e venne a baciarmi e accarezzarmi con la delicatezza di chi ha paura di rompere qualcosa di infinitamente fragile.
 
- Anche tu eri certi di trovarci qui – disse la nonna – non hai avuto bisogno di telefonare.
 
- Non poteva che venire da te, io avrei fatto lo stesso, e lo stesso avrebbe fatto anche Giovanna. Ho preso un giorno di permesso per festeggiare.
 
- Bene. Che festa sia.
 
Disse nonna Maria con gli occhi lucidi.
01-10-2019
Ottobre è il mese che ci porta dentro l’autunno.
 
I giorni dell’estate sono un ricordo spesso malinconico giacché il passato è pur sempre un qualcosa di noi che rimane lungo il percorso fatto: un qualcosa di noi che si separa.
 
Nella poesia che propongo oggi: Ottobre, provo a sovrapporre il racconto di una foglia che, mentre cade dall’albero, racconta la sua esistenza effimera non è poi dissimile dal passaggio nostro nell’esistenza.
 
L’autunno, le foglie staccate dal vento dai rami dove la primavera li aveva poste, spesso per noi sono figure poetiche nei tanti versi dedicati a questa stagione; per la foglia è la fine della sua breve vita che dura meno di un giro della terra intorno al sole. Meno di un anno.
 
Cade la foglia e osserva i bambini festanti uscire da scuola, appena ricominciata, e avviati verso il loro futuro; vede giovani donne con addosso i ricordi del mare, e vede sbocciare i nuovi amori. Infine la foglia ricorda il tempo in cui era verde in un tripudio di colori e frutti sopra l’albero e conclude la sua caduta sul selciato di un viale dove già morta fango e suolo, e terra, dove noi camminiamo.
Hamed, il nuovo amico – Enzo Montano

- Come ti chiami?
 
Chiese un bambino a un altro che stava seduto solo soletto su una panchina della villa comunale, nei pressi dello scivolo. C’erano tanti bambini ma lui stava da solo perché non conosceva nessuno.
 
- Il mio nome è Hamed, come mio nonno, ho nove anni.
 
- Che nome strano, ma a me piace, io mi chiamo Matteo.
 
- Anche a me piace il tuo nome. E quanti anni hai?
 
- Nove, come te.
 
- Io non ho amici, sono arrivato ieri, ho fatto un lungo viaggio.
 
- Sei venuto col treno?
 
- No, non ci sono treni nel mio villaggio, neanche la ferrovia, e le strade sono di terra. Cisono sole dei vecchi pullman
 
- Come sei arrivato, allora?
 
- Sono venuto su una grande barca assieme a tante altre persone.
 
- Perché non sei rimasto al tuo paese, non ti piace?
 
- Il mio paese è bello, è tutto verde con tanto sole.
 
- Allora sei venuto per andare a scuola?
 
- Dice papà che siamo scappati dalla guerra, dagli uomini cattivi che ci vogliono uccidere. Ho perso uno zio e due cugini l’anni scorso. Sono venuti degli uomini col fucile e li hanno portati via.
 
- Dove sono adesso?
 
- Non lo sa nessuno.
 
- È bella la tua pelle, al tuo paese vai al mare? Io non mi abbronzo mai così tanto.
 
- La mia pelle è sempre così, non è l’abbronzatura, così è la pelle di tutti i miei parenti e di tutte le persone del villaggio.
 
- Vedi la mia pelle è più chiara.
 
- La tua pelle è bella, è come il latte e le stelle.
 
I bambini osservavano i giochi degli altri. Chi alla giostrina, chi al castello, chi sull’altalena.
 
- Ti va di giocare a pallone? – Chiese Matteo.
 
- Vuoi giocare con me? Sei sicuro di voler giocare con me? Molte persone mi dicono che sono cattivo, che me ne devo tornare a casa.
 
- Perché la tua casa non è qui?
 
- Si abito lì in fondo, in quel palazzo bianco e grigio.
 
- Allora la tua casa è qui. La mia casa è vicino alla tua, vedi, dove c’è quell’albero alto. Si, voglio giocare con te.
 
I bambini giocarono felici, poi se ne aggiunsero altri e fecero una bella partitella. Smisero di giocare solo quando le ombre diventarono lunghissime e il sole colorava tutto di rosa e viola.
 
Matteo e Hamed si rividero la mattina successiva a scuola e poi anche il giorno dopo e per tutti i giorni. Quasi tutti i pomeriggi giocavano a pallone o facevano delle passeggiate assieme ad altri ragazzi.
 
Un giorno la mamma chiese a Matteo:
 
- Ci sono dei bambini di altri paesi nella tua classe?
 
- Si Mamma. C’è Hamed, c’è Fatima, Jelira…
 
- Hanno lo stesso colore della tua pelle, i capelli lunghi, parlano strano?
 
- No, mamma, a scuola, nella mia classe ci sono solo dei bambini, e sono tutti amici miei.
04-10-2019
Vincent Van Gogh - L'Allée des Alyscamps, 1888, olio su tela, cm 91,7 x 37,5
Ottobre – Enzo Montano

Attendo l’attimo del distacco doloroso
Nel brivido della crudeltà meravigliosa
nella luce luminosa di questo limpido meriggio
In questo oceano di dolcezza annego
Attendo il refolo che dona la morte
Mi espunge dal ramo di una vita
Per voi versi cesellati da poeti per me la fine
Per voi la vita è anni e somma di decenni
Per me solo incompleta evoluzione
Il vento mi sostiene in giravolte tra le rose
I raggi di luce esaltano riflessi d’oro
Pencolo leggera nell’ultimo respiro
Vivo l’attimo di festanti bimbi
Dal portone della scuola gioiosi
Lungo la via dell’esistenza intera
Amori nuovi giovani fanciulle in fiore
Raggi delicati accarezzano lievi
Ansanti membra abbronzate ancora
Verde intenso poi giallo quasi oro
Ancor lontano è l’inverno il mio è arrivato
Non bianco e alberi spogli ma tripudio di colori
Inno possente della primavera
Ornamento fresco degli orpelli estivi
Foglia calpestata e morta al termine del viale.

 
da Ritratti – Apollo Edizioni, 2019
08-10-2019
Il cavaliere invincibile – Enzo Montano

 
 
C’era una volta un cavaliere con un’armatura d’argento. Aveva sempre con sé una grande spada scintillante, una lancia dalla punta d’oro e un grande scudo d’acciaio.
 
Il mondo del cavaliere era la guerra perché era cresciuto in un paese dove c’era sempre la guerra. I suoi giocattoli erano state le armi, e nessuno mai gli aveva regalato un’automobilina, o un aquilone, o un orsacchiotto, o una costruzione. Neanche gli avevano mai regalato un libro di fiabe, o un album per disegnare, o dei colori.
 
Quando è diventato un giovanotto, il suo papà, che era il re, gli regalò l’armatura d’argento, la spada scintillante, la lancia con la punta d’oro e il grande scudo d’acciaio.
 
- Adesso sei un soldato – gli disse – devi andare in guerra e conquistare altri paesi per far diventare il nostro regno sempre più grande e potente.
 
- Si, padre. Agli ordini Maestà.
 
Il cavaliere, allora, si unì agli altri soldati che stavano partendo per andare a fare la guerra in un paese chiamato Giardino Bello.
 
La battaglia durò cinque giorni interi, Giardino Bello fu conquistato, ma molte case furono distrutte. E furono distrutti anche alberi e cespugli di rose rosse e piante di gigli bianchi.
 
Il più valoroso di tutti i guerrieri fu proprio il cavaliere d’argento. Così lo chiamavano tutti.
 
Da allora il cavaliere d’argento vinse mille battaglie e poi ancora altre mille. Conquistò tanti paesi: Monte Alto, Monte Basso, Collinetta, Villa Grande, Villa Piccola, Prato in fiore, e tanti altri.
 
Tutte le volte che passava da una città era festeggiato dalle molte persone che avevano desiderio di vedere da vicino l’invincibile cavaliere d’argento. Quando passava, bello e splendente, alla testa del suo esercito invincibile tutti gridavano:
 
- Evviva il cavaliere d’argento, evviva l’invincibile guerriero.
 
Insomma, era una gran festa ovunque andasse ed era una vittoria qualunque battaglia egli combattesse.
 
Un giorno, mentre andava alla conquista della città di Bel Frutteto, si sentì un poco stanco e decise di fermarsi per riposarsi.
 
- Voi andate avanti – disse agli altri soldati – io mi riposo una mezz’ora e poi vi raggiungo prima che si faccia sera.
 
Il cavaliere d’argento scese da cavallo e per la prima volta in vita sua alzò gli occhi. Quello che vide lo sconvolse: era troppo bello.
 
- Che meraviglia, è tutto azzurro con dei batuffoli bianchi che si muovono come i velieri nel mare.
 
Il cavaliere guardò a lungo il cielo con la curiosità e lo stupore di un bambino. Poi sentì i raggi del sole accarezzargli il viso, e poi il vento leggero sulla faccia, e poi avvertì il profumo del prato. Provò sensazioni sconosciute. Fino ad allora per lui c’era stata solo la guerra, le armi, le armature, le battaglie, la distruzione. Mai avrebbe pensato al sole, al vento, al cielo, alle nuvole, ai fiori, ai profumi.
 
Si tolse l’armatura. Si sentì così leggero e fresco che gli parve di poter volare. Si mese accorrere nel prato. Era felice come mai lo era stato. Restò incantato dal verde del prato, dal rosso dei papaveri, dal giallo delle ginestre, dalle foglie degli alberi che danzavano col vento. Correva e saltava, saltava e rideva felice. A un tratto vide dei piccolissimi fiori blu, si fermò e si inginocchiò per osservarli da vicino: “che meraviglia” – pensò – così piccoli e così straordinariamente belli. Perché li vedo solo adesso, perché prima non riuscivo a vedere i colori? Sono un grande imbecille altro che l’invincibile cavaliere, circondato da tanta bellezza senza riuscire a vederla.”. Stette inginocchiato vicino ai fiorellini e pianse per la gioia della scoperta: il cavaliere vedeva finalmente la bellezza della natura e per la prima volta ebbe voglia di capire come era fatto il mondo.
 
Poco lontano vide una bambina seduta sull’erba che stava sfogliando un libro. Il cavaliere le si avvicinò piano piano temendo di spaventarla.
 
- Come ti chiami? – Chiese la bimba quando lo vide.
 
Il cavaliere esitò perché da molto tempo nessuno lo chiamava col suo nome e prima che lo ricordasse, la bimba continuò.
 
- Io mi chiamo Margherita, come questo fiore. – Disse mostrando un bel fiore bianco e giallo.
 
- Che bello, – disse il cavaliere – ma tu sei più bella di tutti i fiori.
 
- Allora me lo dici il tuo nome, non so come chiamarti.
 
- Hai ragione. Mi chiamo Stefano.
 
- Tu conosci delle storie, Stefano?
 
- Cosa sono le storie?
 
- Quelle che sono scritte sui libri, come questo - Disse la bimba mostrando il libro che stava leggendo – nei libri ci sono tante cose da imparare, storie allegre, tristi, di persone, di animali, di fate, di folletti. Lo sai che ci sono anche dei libri per imparare a far di conto, oppure per imparare a scrivere, o anche per sapere quello che è accaduto tanti anni fa quando noi non c’eravamo?
 
- No, Margherita, io non ho mai letto un libro.
 
- Neanche le avventure di Pinocchio?
 
- No piccolina.
 
- Neanche Cappuccetto Rosso?
 
- No.
 
- Ma allora, Stefano, non sai niente. Se diventi mio amico ti racconterò tutte le storie che conosco.
 
- Sarebbe la cosa più bella del mondo, mi insegnerai anche a leggere?
 
- Si, Stefano, e poi potrai leggere tutti i libri del mio papà. Lui ne ha moltissimi. A casa c’è una stanza con mobili alti fino al soffitto tutti stracolmi di libri.
 
- Allora io voglio essere tuo amico e del tuo papà.
 
Il cavaliere invincibile da quel giorno non toccò più l’armatura d’argento, né la spada scintillante, né lo scudo d’acciaio, e neanche la lancia dalla punta d’oro, consegnò tutto al papà di Margherita che li portò in un museo, dove c’erano le armature di altri cavalieri.
 
Stefano diventò il più grande lettore di libri e, insieme alla sua amica Margherita, scrisse delle belle storie per ragazzi.

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